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martedì 10 giugno 2014

Recensione: Cristiano Cavina - Un'ultima stagione da esordienti - Marcos y Marcos

Ho sentito parlare di questo autore qualche anno fa. Con il suo romanzo d'esordio vinse il premio Tondelli, quindi andava letto e va letto assolutamente.


Trama: Il romanzo è di stampo autobiografico e narra le vicende di un gruppo di ragazzi alle prese con il loro ultimo campionato di calcio giovanile - frequentano la terza media. Siamo a Casola Valsenio, luogo in cui vive l'autore; un piccolo paese di provincia dove il Dio del calcio ama farsi vedere fra campi polverosi, allenatori con una testa di cinghiale in panchina e arbitri poco capaci.

Analisi: Questo è il secondo romanzo di Cristiano Cavina. È un libro nel quale riversa il proprio vissuto, raccontandolo quasi come una favola, come un ricordo. Non ci sono dialoghi, solo "citazioni" di ciò che diceva il Mister, l'arbitro di turno e altri personaggi. Tutti in quel di Casola Valsenio.
Chi di noi non si è mai iscritto alla squadra di calcio dell'oratorio? Chi di noi non ha mai vissuto un campionato tirando calci a un pallone di cuoio secco, in mezzo a campi di ghiaia dove l'erba fresca su cui fare le scivolate, era un lusso?
Cavina racconta non solo se stesso, ma anche ognuno di noi. Riesce a entrare in una soggettività così intima da sembrare identica in ogni luogo.
E lo fa con un linguaggio informale, quasi sussurrandotelo all'orecchio. Come se stessi al bar del paese ad ascoltare le storie antiche di quei vecchietti che hanno fatto la guerra, che la vita l'hanno vissuta tragicamente.
Non c'è nulla di tragico nel libro di Cavina, forse solo la fine di una stagione che coincide con l'inizio dell'adolescenza. Forse la fine di un mondo che, prima o poi, tutti andremo a esplorare almeno una volta nella vita.

È un libro piacevole, da leggere con calma, in una giornata di sole, quando la nostalgia viene a farci visita.

lunedì 19 maggio 2014

Sei mai stato dall'altra parte?


Questo sogno è molto ricorrente. Più che altro sono gli elementi del sogno ad essere comuni. L'ho fatto di recente, circa una settimana fa. Ci metto sempre un po' a metabolizzarli.

La prima cosa che vidi fu un'autostrada. Il mio sedile sobbalzava e sotto i polpastrelli delle dita potevo sentire la consistenza del suo finto velluto blu. Era un pullman, uno di quelli provinciali perché di fianco alla strada c'erano campi d'erba verde e di pannocchie. Il sole era caldo, ma non percepivo molto la temperatura. C'erano altre persone sull'autobus, potevo vedere solo la loro nuca. Alcune giovani, altre un po' più avanti con l'età, insomma era un'insalatiera piena di soggetti - io compreso - che andavano chissà dove. Come succede spesso nei sogni in cui mi ritrovo su di un pullman, l'autista a un certo punto si preparò per effettuare una strana manovra. L'asfalto grigio cominciò a salire, il mezzo borbottava sotto le spinte del suo acceleratore. La strada si inclinò di circa quarantacinque gradi. Cambiò marcia più volte, fu sul punto di fermarsi e procedere al contrario. Senza rendermene conto, i campi di pannocchie divennero sempre più lontani, più bassi, fino a scomparire in una gola. Stavamo scalando una montagna e la strada era così ripida che credevo ci saremmo ribaltati. Al contrario di molte altre volte, il pullman riuscì ad andare avanti, a passare il tornante. Pochi secondi dopo curvò a destra. La strada tornò dritta; un rettilineo talmente lungo da mischiarsi all'orizzonte. Nessuno dei passeggeri disse nulla, era come se aspettassero quel momento. Erano calmi, guardavano fuori dal finestrino. Mi resi conto che ero l'unico a rimanere aggrappato con le unghie al sedile, rigido come un blocco di gesso. Pochi secondi dopo arrivammo oltre, non so bene come e dove, ma la sensazione era quella di aver attraversato una barriera invisibile fra il nostro mondo e l'altro. Era tutto buio, non c'era un vero e proprio pavimento. Si poteva camminare, ci si poteva guardare attorno. Qualsiasi punto osservassi, mentre scendevo dall'autobus, era nero. Le persone però erano chiare, soprattutto quelle che avevo di fianco. Davanti a noi vidi un edificio. Era comparso dal nulla, pensavo. Invece qualcuno, non so bene chi dato che parlava più nella mia testa che attorno a me, mi spiegò che quello era un albergo, un albergo molto grande nel quale i nuovi arrivati dovevano passare un po' di tempo. Anche la parola tempo mi è difficile da utilizzare. Quella voce mi disse che lì, il tempo, non esisteva.

Mi fece vedere uno schema, una specie di mappa tracciata con delle linee bianche - in teoria erano i confini di quel mondo, ma anche quei confini non esistevano, lo faceva perché quelli come me, i nuovi, avevano ancora un punto di vista soggettivo, disse.
Puntellò gli spazi fra le linee dicendomi che quei segni rappresentavano le persone. Fece una mappa analoga, della Terra. Poi tracciò altre linee, questa volta collegavano i puntini tracciati sulla terra con quelli tracciati sulla mappa di quel luogo. Poco dopo, qualcuno ci fece entrare nell'edificio. Vidi un uomo sulla cinquantina, capelli ricci neri, fisico ben piazzato, aveva l'aria del corridore, e di fatto correva come se si stesse allenando per una maratona. Venne verso di noi e ci superò, senza dire una parola. 
La sala era enorme, spaziosa e piena di tavoli lunghi disposti sia uno in fila all'altro, sia di fianco. Visto da lontano sembrava pieno di persone.
Non c'era luce elettrica. Su ogni tavolo, a distanze  ben calibrate, si trovavano candele bianche che emanavano una leggera luminescenza color miele.
Mi avvicinai a un tavolo. C'erano tre persone. Una seduta a capotavola, due ai lati. Quella di fronte a me, dall'altra parte del tavolo, non era umana.
Aveva il fisico di un uomo, il petto era più largo e le mani mostravano cinque unghie bianche e affilate. La testa era più piccola della nostra, come quella di un neonato. Aveva il mento appuntito e la carnagione scura come la notte. Gli occhi, o meglio, quelli che dovevano essere gli occhi secondo la mia logica, erano formati da una striscia bianca. Non sapevo cosa dire. Non avevo paura, in qualche modo sapevo che quel luogo non era ostile. L'unica spiegazione che mi diede la voce nella mia testa fu che il posto dal quale provenivo serviva a popolare quel luogo. Più precisamente, la voce disse che serviva a riempirlo, come una bilancia.

mercoledì 14 maggio 2014

Recensione: Fratelli Coen/Cormac McCarthy - Non è un paese per vecchi

Cormac McCarthy è uno degli scrittori considerati pilastri della letteratura americana del ventesimo secolo. Sono perfettamente d'accordo con chi lo sostiene. E questo libro - e parlo ovviamente anche del film - ne è la prova.



Trama: Ambientato in Texas nel 1980, narra la storia di Lyewelyn Moss, un reduce della guerra del Vietnam che impiega il tempo come saldatore. Moss, durante una battuta di caccia, si ritrova in mezzo a un campo di battaglia, immerso in quella che subito comprenderà essere stata una guerra fra narcotrafficanti finita a colpi di pistola. Moss trova una valigia piena di soldi - che sarebbe servita a pagare la cocaina disposta in pacchetti su uno dei camion della banda. 
Convinto di aver fatto la scoperta che cambierà la vita a lui e a sua moglie, torna a casa. L'ex marine non ha idea del fatto che all'interno vi è una radio ricevente e che un sicario psicopatico - Anton Chigurh - è sulle sue tracce, così come i narcotrafficanti. Di lì a pochi giorni, la vicenda precipiterà in un vortice di violenza.

Analisi: Non è un paese per vecchi lo considero un trattato di filosofia, o meglio, di sociologia contemporanea. McCarthy, tramite la narrazione e con lo stile cupo e tenebroso che lo contraddistingue ci pone davanti a una situazione reale, tangibile. Lo fa attraverso Anton Chigurh, un sicario con un'identità morale tutta sua, convinto di essere la mano del destino. Spesso decide con il lancio di una moneta la fine che faranno le sue vittime.
Il concetto della violenza di oggi si può trovare nei monologhi dello sceriffo Ed Tom Bell, che rappresenta un po' il lato analitico della vicenda: "A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea. Difficile a crederci. Mio nonno faceva lo sceriffo, cosi come mio padre. Credo ne andasse fiero, io ne andavo fiero eccome. Ai vecchi tempi c'erano sceriffi che non giravano neanche armati. Molta gente stenta a crederci. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi che fine avrebbero fatto al giorno d'oggi. C'è un ragazzo che ho mandato sulla sedia elettrica un po' di tempo fa, su mio arresto e su mia testimonianza. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni. Il giornale scrisse che era un crimine passionale ma lui mi disse che la passione non c'entrava niente, che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno e che se fosse uscito di galera l'avrebbe rifatto. Sapeva che sarebbe andato all'inferno. Da li a un quarto d'ora ci sarebbe andato. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura, ma non ho intenzione di uscire per andare incontro a qualcosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima".
Questo è il succo, il messaggio. 

La violenza, così come la conosciamo oggi, ha un senso? Una radice che riconduce a un perché logico?
La risposta di McCarthy è, ovviamente, no.

Lo consiglio a tutti coloro che si chiedono il motivo di tutta questa crescente violenza nel mondo, e che non trovano una risposta razionale.


martedì 22 aprile 2014

Perché continui a dormire?

Questo incubo è molto recente. Ho atteso qualche settimana per capire e mettere insieme tutti i pezzi. Ricordo che appena mi svegliai avevo chiare nella mia mente solo alcune immagini. 

Mi trovavo in prossimità di un porto. Si vedevano il mare, la sabbia e la schiuma prodotta dalle onde. Camminavo fianco a fianco a una ragazza; aveva i capelli neri, lisci e un vestito nero con uno scialle di lana, nero anche quello.
Eravamo in un mercato, c'erano bancarelle che vendevano pesce, altre vendevano orecchini, anelli, ciondoli. Altri ancora, vestiti.
La ragazza non aveva un nome e durante il sogno non glielo chiesi. Era come se la conoscessi da poco, sembrava un primo appuntamento.
I suoi occhi, simili al petrolio, non puntavano mai verso di me. Camminava a circa due metri di distanza e mi parlava. Aveva il viso giovane, senza rughe e il naso pronunciato. La sua espressione era preoccupata, gli occhi si muovevano come se cercasse qualcosa o qualcuno.
Andammo avanti fino a quando il mercato non finì. 
Al posto delle bancarelle sbucarono dalla sabbia alcune baracche di legno e marmo, con i tetti a forma di cono, fatti interamente di paglia marrone.
C'era molta gente sulla spiaggia e noi decidemmo di avvicinarci. La sabbia era umida, pulita, senza alghe o detriti.
Come dal nulla, lungo l'orizzonte, il mare cominciò a gonfiarsi. Quella che sembrava una piccola increspatura dovuta al mare mosso, si trasformò in un'onda; era scura, grigia, sporca. 
L'onda divenne enorme, non saprei quantificare i metri, ma quando ci arrivò addosso, non si vedeva più il Sole.
Colpì la spiaggia e sradicò le capanne, le bancarelle del mercato e tutte le persone cominciarono a scappare e a urlare. Ognuno pensava per sè.
In tutto quel caos la ragazza scomparve, inghiottita dal mare. La cercai, ma non la ritrovai più.
Alla prima onda ne seguirono altre. Io finii per essere trascinato verso la strada, all'interno.
Detriti, massi, lampade, tappeti, persone, era diventato un miscuglio di cose quel posto.  
Dopo aver ripreso il controllo della situazione, riuscii a trovare un palo della luce. Mi aggrappai con tutta la forza che avevo. 
Una delle particolarità di questo sogno era la fatica che facevo nel tentare di muovere le braccia e le gambe.
Proprio mentre ero lì, mentre il mare lentamente si ritirava, vidi un letto, di quelli matrimoniali. Aveva lenzuola bianche e immacolate come le nuvole. Nascondevano qualcosa.
Mi avvicinai, scansai un mobile in legno e una sedia messa al contrario. Presi le lenzuola con entrambe le mani sporche di terra e le feci scivolare via, verso di me.
Sul letto c'erano circa una dozzina di bambini, non respiravano più ed erano abbracciati l'uno con l'altro. 
Al centro, vestito di bianco, sdraiato assieme a loro, con gli occhi chiusi e la testa un po' inclinata, c'era Papa Francesco. 
Anche lui, come quei bambini, non respirava più.

domenica 13 aprile 2014

Ossa

Credetemi
quando vi dico
che non bastano
quattro chiodi
per fare
un Gesù Cristo.

Il mondo,
questa balena
gravida,
sgocciolante,
è più subdolo
di un feto
nato morto.

E' ferro disciolto,
acqua all'arsenico.
E guizza, vola
corrode quanto
l'acido che ho
nello stomaco.

Credetemi
quando vi dico
che per nascere
a questo mondo
bisogna aver
fatto un patto
coi vermi.

Ricordatevi
di chiedere loro
un posto prelibato
al chiaro di luna,
così i posteri
vedranno le vostre
ossa, almeno quelle,
luccicare nell'altitudine.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

venerdì 11 aprile 2014

Recensione: Marco Parlato - Tiroide - Gorilla Sapiens Edizioni

Ho scoperto questo giovane autore mentre spulciavo il catalogo della casa editrice Gorilla Sapiens. Appena letto il titolo mi sono detto: "Ma cosa si può scrivere con un titolo del genere?"
La risposta è ovvia: un libro del genere.



Trama: Il libro narra la storia di Stefano, un ragazzo universitario affetto da ipertiroidismo. La sua vita oscilla fra visite mediche e vita tipica da universitario in quel di Roma, nello specifico, all'Università La Sapienza.
Il tutto condito dalle parole che Stefano legge in un quaderno trovato per caso, scritte da un uomo nigeriano immigrato, Oluwafemi

Analisi: Il libro si legge in un fiato, sono circa centoventi pagine nelle quali i riferimenti alla cultura pop abbondano. L'occhio di Stefano è critico, acido più che caustico e rivela alcuni aspetti della società poco piacevoli, ipocrisia, cinismo fine a se stesso, egocentrismo e una linea sottile, finissima, che divide un italiano medio da un immigrato medio.
Lo stile è ancora acerbo, lo si percepisce da parole come liso, ingollare. Non per questo poco attraente. La narrazione scorre, forse troppo velocemente e alcune immagini appaiono poco chiare. 
Non vi è respiro, ma questo lo si può evidenziare come punto a suo favore. Vi è qualcosa di nevrotico, qualcosa del passivo-aggressivo e Marco Parlato ne fa un punto di forza nella sua narrazione. 
Qui si sta sviluppando uno stile, uno scrittore e da ciò che salta all'occhio, Marco Parlato è da tenere sotto osservazione, senza dubbio.

Consiglio questo libro a tutti coloro che hanno voglia di leggere qualcosa di diverso, di particolare e alle persone che con la timidezza non hanno nulla a che fare.